Direttore creativo di Visionnaire, racconta una rivoluzione di prodotto e di pensiero: «Perché si può fare impresa ottenendo un buon fatturato, ma anche un fatturato buono»
Si fa un gran parlare di sostenibilità e tutte le aziende sono pressoché obbligate a fare i conti con questa nuova eco-sensibilità generale. Poi c’è chi ha osato un passo ulteriore, facendo della fabbricazione responsabile una vera linea guida, una strada verso cui andare, senza se e senza ma, anche a costo di mettere mano a tutti i propri prodotti. Esempio ne è Visionnaire, grande brand di design, che ha virato le sue proposte in nome di nuovi valori: «Ormai c’è una coscienza diversa, una maggiore consapevolezza, per cui, per esempio, abbiamo eliminato dalla produzione tutte le pelli degli animali di cui non si mangiano le carni.
Nel lusso niente è scontato e niente è impossibile, per cui se prima c’erano pellicce di renna, di ermellino e visone, ora certo non le proponiamo più».
Eleonore Cavalli di Visionnaire è non solo Head of Global Marketing & Communication da vent’anni, ma da cinque è pure Direttore Creativo. Ed è lei che ha voluto dare una svolta decisiva: le certificazioni FSC Forest Stewardship council e PEFC™ Programme for Endorsement of Forest Certification ne sono solo una prima testimonianza: «Volevamo essere certi di lavorare con un legno proveniente da tagli legali e da filiere controllate», spiega lei.
Ma queste certificazioni quanto sono significative?
«Sono importanti, ma certo non bastano. Bisogna inserirle in un progetto strategico più composito e complesso. Per noi il legno è un materiale centrale: il 99% dei nostri prodotti è fatto di legno e questa certificazione che abbiamo ottenuto è il segnale che c’è la volontà da parte nostra di gestire con attenzione le materie con cui lavoriamo. Ci teniamo a impegnarci per ribilanciare il nostro impatto ambientale: sapere che dai un contributo con la ripiantumazione di alberi, sapere che tutto quello che fai è tracciabile e trasparente, è oggi necessario. E ci piace pensare che anche i clienti, comprando i nostri prodotti, possano diventare degli ambassador dei valori in cui crediamo».
Ma voi lavorate con tantissimi altri materiali: l’attenzione che avete rivolto al legno, l’avete avuta anche per il resto?
«Assolutamente sì. Anche per le pelli, per esempio. Sappiamo bene che quello delle pelli è un tema molto controverso: abbiamo così voluto andare all’origine, capire per esempio da che tipi di allevamento arrivano le pelli che poi lavoriamo, come vengono trattati quegli animali durante la loro vita. Siamo andati a fondo, con mille domande, cosa che ci ha fatto iniziare progetti a quattro mani, sviluppando idee che prevedono l’utilizzo di pelli rigenerate, recuperate dagli scarti, trattate in modo tale da essere più resistenti all’usura e ai raggi del sole, così da non essere dismesse in poco tempo. Lo stesso pensiero l’abbiamo fatto per i tessuti: ultimamente abbiamo usato Iris, un nuovo prodotto tessile composto da fili di poliestere ottenuti dal riuso di bottiglie di plastica disperse nell’ambiente, un materiale 100% riciclato e 100% riciclabile. Totalmente prodotto in Italia, Iris garantisce un’importantissima riduzione di emissioni di Co2 e un minor spreco d’acqua per un risparmio energetico di oltre il 60% rispetto ai normali processi produttivi».
Ma quanto costa tutta questa ricerca ambientale, questa riconversione?
«Costa, ma è una trasformazione culturale necessaria per andare avanti, un investimento. Anche perché la nostra è una trasformazione di pensiero, che coinvolge tutta l’azienda, tutti i reparti. Ma a un certo punto bisogna fare delle scelte di campo, per dare un segnale chiaro ai nostri clienti. Certo, bisogna stanziare dei budget, ma ogni anno si decide su quale àmbito investire: prima è stato il legno, poi le pelli e i tessuti e poi il ripensamento produttivo. Ci si dà degli obiettivi da raggiungere e si compone il puzzle, pezzo per pezzo. Talvolta bastano dei ripensamenti su prodotti che già produciamo, senza grosse rivoluzioni: abbiamo per esempio rivisto una nostra storica cucina, semplicemente alleggerendo i materiali, cosa che poi è andata a incidere sul trasporto, sulla facilità di assemblaggio, sull’eventuale smaltimento, che pure impattano sull’ambiente. Le grandi aziende devono essere portatrici di valori positivi, travalicando il proprio profitto immediato. Noi vediamo i frutti adesso di scelte fatte tre anni fa, quando per esempio abbiamo proposto una collezione composta da materie prime vegetali e naturali, eliminando la gommapiuma e il poliuretano a base petrolifera: abbiamo cercato soluzioni sempre più responsabili e i nostri clienti sembrano essere ancor più convinti dei loro acquisti. Si è creato un legame più viscerale, legato ai valori condivisi, piuttosto che alla capacità di portafoglio».
Ma come è cambiato il concetto di lusso in questi anni?
«Tantissimo. Il lusso c’è sempre stato, è un elemento di distinzione, di unicità e molte volte associato al made in Italy. Ma oggi il lusso non appartiene più solo alla sfera dell’esclusività per il tipo di materiale o per il valore economico dell’oggetto, sempre più è legato ai valori che è capace di trasmettere, diventa un elemento distintivo, quella scelta di campo di cui parlavamo prima. È per questo, per esempio, che noi non parliamo più di lusso, ma di meta-lusso: io non compro più una sedia perché è una bella sedia in velluto di seta con gambe laccate, ma la compro perché questa sedia è stata prodotta in Italia, perché so che i lavoratori che l’hanno assemblata hanno contratti di lavoro regolari, perché so che i materiali non sono tossici, perché è tutto controllato, tutto verificato. Questo è il nuovo lusso, un lusso sostenibile, con una presa di responsabilità. L’anno scorso, per i 60 anni dell’azienda, abbiamo presentato un decalogo, un vero manifesto delle intenzioni, con cui fare luce sul nostro raggio d’azione e definire la rotta: sei sei un’azienda sostenibile creerai una sorta di ecosistema virtuoso: se ottieni una certificazione, anche l’artigiano che lavora con te l’avrà ottenuta. È un patto culturale, un seme che germoglia e che porta a buoni frutti, è un modo di fare impresa ottenendo un buon fatturato, ma anche un fatturato buono».